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Operazione "Avalanche": la guerra vista dalla grotta di Sant’Elena ad Amalfi

Il ricordo nitido e lucido di Sigismondo Nastri sulle ore immediatamente successive allo sbarco delle truppe alleate sul litorale salernitano che diedero il via all'Operazione Avalanche, di cui quest'anno ricorre l'ottantesimo anniversario

Inserito da (Maria Abate), venerdì 6 settembre 2024 10:35:54

Di Sigismondo Nastri*

Abitavamo nel cuore della Valle dei Mulini, all'ultimo piano del maestoso palazzo Anastasio, dove comincia a inerpicarsi la strada pedonale che conduce a Pontone, Minuta e Scala. Per noi l'accesso non era dal cancello centrale che immetteva ad una bella scalinata, arricchita da aiuole fiorite, due vasche con zampilli e pesciolini rossi. Il nostro ingresso era da un portone secondario, posto sulla sommità di una lunga rampa di gradini.

Nel periodo più cruciale della guerra, quello che portò allo sbarco degli alleati, la notte tra l'8 e 9 settembre del 1943, il padrone di casa, don Andrea Anastasio, vecchio signore, erede di una facoltosa famiglia di armatori, ci consentì di occupare anche un'altra casetta, situata sotto uno sperone di roccia, nella parte più alta del giardino, corrispondente alla base del monte di Pontone. Lì saremmo stati più sicuri. A pochi metri c'era la grotta con l'effige di Sant'Elena, unica traccia di un antico monastero a lei dedicato. La "chiazza" antistante, un terrazzamento coltivato a viti, era il luogo dei nostri giochi. Di solito andavamo a caccia di lucertole, farfalle, passerotti, che torturavamo con una crudeltà di cui ancora provo vergogna. Una volta ci capitò di scoprire, in una cavità della montagna, dei resti umani. Forse risalivano all'antica comunità religiosa. C'impadronimmo delle ossa più grandi - credo tibie - e le usavamo come spade per tirare a scherma.

Il mio posto di osservazione era in una stretta cavità di roccia. Solo io, campione di magrezza, riuscivo a entrarci. Me ne servivo nelle situazioni più pericolose. Come quella che mi vide testimone di una battaglia tra aerei angloamericani e tedeschi. O, forse, italiani. Uno di essi - la scena mi è rimasta impressa nella memoria - precipitò in fiamme oltre la montagna, in direzione di Castellammare di Stabia.

La nostra abitazione era a un centinaio di scalini dal rifugio. Papà vi tornava, con un amico fidato, Ulisse Ferrara, a orari fissi. A volte, cedendo ai miei capricci, mi portava con sé. Innanzitutto, chiudeva a chiave la porta, le imposte delle finestre, facendo in modo che non trapelasse fuori un filo di luce. Dopo di che accendeva la radio, una Magnadyne acquistata con molti sacrifici, e la sintonizzava prima sul giornale radio, poi su Radio Londra. Ne veniva fuori una situazione paradossale: da una parte si affermava che le nostre truppe avevano resistito agli attacchi alleati, dall'altra parte, con dovizia di particolari, si diceva che avevamo subito una terribile sconfitta, con grave perdita di uomini e mezzi. Papà mi spiegava che stavamo sull'orlo della disfatta, raccomandandomi di non farne parola con nessuno. Era proibito ascoltare la radio nemica, si rischiava di finire in galera.

Quando fu sganciata una bomba sulla cartiera Confalone, nella Ferriera, ne avvertimmo il fragore intenso. Non ci furono vittime, per fortuna. Stessa cosa quando le bombe caddero sulla piazza Flavio Gioia, causando morti e feriti.

 

Questo l'elenco delle vittime: Andrea Abbagnara, tipografo, 29 anni; Giuseppe Amatruda, 16 anni; Carmela Benissimo coniugata Cassone, nota commerciante tessuti, 64 anni; Giuseppe Culicchi, sergente di fanteria, 32 anni; Antonietta Fiorenza, studentessa universitaria, 20 anni, e il fratello Francesco, studente, 16 anni; Pasquale Lenco, carabiniere, 21 anni; Vincenzo Marra, militare, 45 anni; Antonio Russo, militare, 33 anni; Alberto Giovanni Smiraglia, elettricista, 20 anni; Gennaro Tatillo, militare, 43 anni.

*da "Taccuino di un ottuagenario"

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