Inserito da (PNo Editorial Board), sabato 10 febbraio 2024 10:19:49
Di Sigismondo Nastri
《Nu poco 'e canto e ssuone Carnevale pure 'o vvò》.
Quando ero ragazzo, ad Amalfi (come in tanti posti della Campania) si cantava la "Canzone di Zeza" agli angoli delle strade. Con Vicenzella che faceva l'occhio languido a Don Nicola:
《Oi mamma mà che veco!
Nn'è chillo Don Nicola?
Mò proprio sarrà asciuto dalla scola!
Si chillo me vulesse,
io me lo spusarrìa
e cchiù sotto de tata nun starria.》
E questi che confessava di aver perso la testa per la ragazza:
《Bennaie tutto lu munno
'stu spantu de biddizza,
comm'a sumaru io tir' 'a capizza.
Pe' chesta faccia bella
nun trovo cchiù arricietto,
de lacreme aggio 'nfuso tutto lu lietto,
aggio pisciat' 'o lietto!》
Mentre Zeza faceva la voce grossa al marito:
《Sì pazzo si te cride
c'aggio 'a tenè 'nzerrata
chella povera figlia sfurtunata!
La voglio fà scialare
cu ciento nnammurate
cu prievete, signure e cu li surdate
pure cu 'e surdate!》
E il povero Pulcinella, costretto alla fine a dare il suo assenso al matrimonio, con un amaro commento:
《Gnorsì songo contento,
maie cchiù io 'na parola
m'hanna cecà si 'a dico a don Nicola!....
Ma vuie signori mieie
nun ve 'nzurate maie,
pecchè cu 'na mogliera passate 'nu guaio!...
Passate 'nu guaio!》
Un attento cultore di storia e tradizioni del territorio amalfitano, Salvatore D'Amato, che ha raccolto, a suo tempi, la testimonianza di un protagonista (Quirino D'Amato), scrive [ved. articolo sul Foglio Costa d'Amalfi, febbraio 2000] che 《la rappresentazione aveva inizio di sera, all'imbrunire, nella Piazza dello Spirito Santo, seguendo un percorso abituale contrassegnato da vigorose soste nelle varie osterie che si incontravano lungo la strada, si portava a Piazza Flavio Gioia dove si concludeva con un'allegra quadriglia》. La gente seguiva divertita ed attenta, formando nutriti tornelli, le scene a soggetto interpretate da Nicola "Alaccio" [abitava for' 'o Muro rutto], nelle vesti dell'esile e graziosa Zita - la figlia - detta anche Vicenzella; Vincenzo Livano (don Nicola), Emilio Proto (il padre: Pulcinella), Alfonso Cretella (Zeza: la madre), sostituiti, in seguito, alcuni di essi, da Giacomino e Antonio Milano e da Quirino D'Amato.
Personaggi, scene, allegria, che conservo bene nella memoria.
Sul sito del Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari trovo questa spiegazione: 《Il nome di Zeza è il diminutivo di Lucrezia, tipico nome nobiliare molto diffuso a Napoli fin dal 1400, ma nella rappresentazione Zeza è una contadina che, proprio per il rovesciamento dei ruoli ammesso durante il Carnevale, ha un nome appartenente a una classe sociale diversa dalla sua. È comunque una intrigante e ruffiana, che fa in modo che la figlia si incontri e scambi la promessa di nozze con il pretendente, don Nicola Pacchesicco nella tradizione orale, e Tolle nella tradizione scritta. Don Nicola si presenta vestito di nero, con un libro in mano, dichiarandosi a volte abate e a volte studente in legge o dottore. Dal punto di vista storico Don Nicola esprime come studente una condizione di emarginazione che durò fino al 1800, ma rappresenta anche colui che sa scrivere e sa leggere. La maschera di dottore è tipica nelle mascherate del Carnevale perchè, nel rovesciamento dei valori, dice spropositi, fa morire gli ammalati e in molti casi opera il Carnevale moribondo, facendolo morire. Don Nicola, a una ennesima minaccia di Pulcinella, che lo caccia di casa avendolo sorpreso con sua figlia, ritorna armato di fucile e spara tra le gambe del suocero, che alla fine sarà costretto a dare il suo consenso alle nozze. [...] Nella canzone di Zeza Pulcinella è padre con tutte le negatività addossate al padre carnevalesco (geloso, vile, repressivo), ed è anche l'immagine del Carnevale stesso, al quale si fa il tradizionale funerale.》
Ad Amalfi questo singolare e pittoresco funerale del Carnevale - condotto in "processione'' in una cassa da morto scoperchiata mentre divorava spaghetti prendendoli con le mani da un pitale - ha avuto come protagonisti due mitici personaggi: Burdello e 'o Caporale.
Ora, ho già avuto modo di scriverlo, il gusto del Carnevale è finito. Tutto avviene per motivi di richiamo turistico. Solo i bambini vivono la giornata con spontaneità e allegria. Evviva!
Il Carnevale, però, resta un'occasione ghiotta per i buongustai. Certo, non si allestiscono più banchetti di quaranta portate, come si usava una volta, ma si può essere sicuri che, in molte case, trionferanno sulla mensa le specialità trasmesse a noi dagli antenati. Cito le squisite lasagne [ved. Mio post con la ricetta], condite con robusto ragù di tracchiolelle, minuscole polpettine (la carne macinata sparsa alla rinfusa, no!), ecc. ecc. [e chi usa la besciamella - prendo l'espressione dalla Cena delle beffe - "peste lo colga"[; quindi, le salsicce, le braciole arrotolate, le polpette (con i pinoli e l'uva sultanina), passate in padella e poi cotte nella salsa; la gelatina di maiale guarnita di foglie di lauro, uvetta e pinoli; i tortani di pane con la 'nzogna, cìculi e pepe. E le sopressate [io prediligo quelle tramontane di Gianni Sorrentino: entrare nella sua macelleria a Pucara è sempre una festa]. Mi fermo qui: il sanguinaccio, dopo il divieto di adoperare il sangue di maiale, introdotto nel 1992, sopravvive nei ricordi, che si fanno, accidenti!, sempre più lontani [anche se di tanto in tanto mi capita ancora di gustarlo, grazie alla disponibilità di qualche amico].
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